Il Rapporto di sostenibilità Assofond 2022: tutti i dettagli
Le instabilità che hanno caratterizzato il quadro economico degli ultimi anni non hanno pesato troppo sulla centralità che le fonderie rivestono per l’intera industria manifatturiera.
La fonderia resta un attore insostituibile del sistema manifatturiero globale. Lo stesso si può dire in ambito più specifico europeo e italiano. Lo conferma la sua capacità di reagire agli urti delle crisi finanziarie internazionali (2008), quanto anche alle speculazioni legate ai dissesti geopolitici – crisi delle forniture a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina – e ai cosiddetti cigni neri, come la pandemia da Covid-19.
È quanto emerge dall’analisi di medio periodo delle performance economiche del settore contenuta nel Rapporto di Sostenibilità 2022 di Assofond, che evidenzia in maniera plastica proprio la capacità delle imprese del settore di resistere alle instabilità che hanno caratterizzato il quadro economico degli ultimi anni.
Dalla crisi finanziaria al Covid-19: un decennio di grandi cambiamenti a livello mondiale
Ripercorrendo il decennio 2008-2019 e prendendo il primo anno non solo come riferimento statistico, ma in quanto legato alla più grande crisi bancaria del secondo dopoguerra, si osserva una dinamica di assestamento strutturale, identitario e geografico delle imprese di fonderia, a livello mondiale.
Oggi nel mondo sono attive quasi 49.000 fonderie, che realizzano complessivamente circa 110 milioni di tonnellate di getti. Di queste il 49% è prodotto in Cina (dati 2020), la cui quota di mercato è cresciuta di 16 punti percentuali negli ultimi anni (dal 33% del 2007 al 49% del 2020). Un dato davvero significativo, che può essere considerato indice di due fattori:
1. I mercati occidentali (Europa e Usa) sono sempre più orientati a commissionare in outsourcing attività di “industria pesante”;
2. Il manifatturiero cinese si conferma un punto di riferimento dell’industria mondiale.
Ne consegue l’interdipendenza, che è propria della globalizzazione, tra chi progetta e chi produce. Ma sarà ancora così nei prossimi anni?
Pandemia e crisi geopolitica: cambio di paradigma in vista per le fonderie?
La crisi economica del 2020, dovuta alla pandemia da Covid-19, potrebbe aver rappresentato una prima cesura significativa rispetto a questo modello evolutivo. Proprio questa consapevolezza ha portato a non considerare nel Rapporto di Sostenibilità gli indicatori di performance relativi al 2020, se non per poche variabili: si è trattato, in effetti, di un anno talmente eccezionale da non poter essere posto sullo stesso piano con i precedenti. E tanto meno con quelli che lo stanno seguendo, viste le incertezze e le incognite ancora da sciogliere.
Va detto però, che l’interdipendenza globale di cui sopra è stata sensibilmente frustrata dai lockdown, soprattutto considerando che in Cina questi sono proseguiti fino a buona parte del 2022, con il porto di Shanghai che solo nel mese di giugno ha ripreso a normalizzare le sue attività dopo quasi due mesi di paralisi. Le catene di fornitura si sono interrotte, inceppate e ora – soverchiate anche dal conflitto russo-ucraino – sono in fase di ridefinizione. Da qui un dubbio legittimo: in un mondo che potrebbe andare verso una nuova contrapposizione di due blocchi, la Cina potrà continuare a essere il principale fornitore di fusioni per il mondo occidentale? O è possibile che Stati Uniti ed Europa riassorbano una quota del mercato?
Ne consegue ulteriormente una domanda: quali possono essere gli spazi per le fonderie europee e, più nel dettaglio, italiane per recuperare le posizioni perdute e acquisire maggiore competitività? Come cambierà l’occupazione nel settore delle fonderie?
La fonderia in Europa e in Italia
Nel 2019, erano attive in Europa, circa 4mila fonderie, per un totale di 270mila addetti, che generavano un fatturato di 40 miliardi di euro e producevano quasi 16 milioni di tonnellate di getti. In termini aggregati tra i Paesi membri Ue, il Vecchio continente si colloca al terzo posto a livello mondiale per produzione, dopo l’Asia e l’America.
All’interno del mercato europeo l’Italia, con una quota del 15%, si conferma la seconda industria di fonderia in Europa, collocandosi davanti alla Francia (13%), alla Spagna (9%), alla Polonia (8%) e dietro alla sola Germania (37%). La pandemia da Covid-19 ha causato, nel 2020, una fortissima contrazione della produzione di fusioni in Italia, che si è attestata poco oltre le 1,5 milioni di tonnellate. Il rallentamento italiano non costituisce però un’anomalia nel confronto europeo. Guardando alle altre grandi economie europee l’Italia mostra, anzi, una contrazione dei tassi di crescita relativamente contenuta, oltre che una maggiore reattività allo shock pandemico, che le ha permesso di conservare il peso percentuale del 15% rispetto alla produzione europea.
Allargando lo sguardo oltre i confini temporali considerati nel Rapporto di sostenibilità, si nota poi che il 2021 ha portato una ripresa molto significativa per l’Italia, soprattutto nell’ambito delle fonderiedi metalli non ferrosi che, con un rimbalzo produttivo pari a circa il +34% sul 2020, si sono portate al primo posto nel ranking europeo.
L’evoluzione della fonderia italiana negli ultimi anni e le prospettive per il futuro
Una riflessione sulla trasformazione storica delle fonderie italiane può fare da stimolo alla ripresa. Fino alla fine del secolo scorso il settore era fortemente concentrato nella fornitura del mercato nazionale. La situazione è cambiata nei quindici anni precedenti la crisi del 2008, nei quali si è registrata una forte crescita della dinamicità degli scambi con l’estero. Le esportazioni di getti ferrosi sono quasi quintuplicate fra il 1993 e il 2007. Successivamente, la necessità di riprendersi dopo la cesura del 2008-2009 ha portato un sempre maggior numero di imprenditori di fonderia a guardare al di là dei confini nazionali per sopperire alla stagnazione delle richieste provenienti dal mercato interno. Alla forte vocazione all’export sono risultati collaterali gli investimenti in beni materiali e in capitale umano, con la conseguente capacità di creare innovazione, di processo e di prodotto, e generare ricchezza per i principali stakeholder. Un valore aggiunto con risultati concreti sia per i territori di competenza delle singole aziende, sia di sostenibilità ambientale e sociale propria di tutto il comparto. Tutto questo all’insegna di sforzi e sacrifici. Il clima di incertezza e l’instabilità economica ha raccomandato spesso prudenza, soprattutto nel secondo quinquennio dei dieci anni presi in esame. Nel 2019, l’Istat ha rilevato che gli investimenti in beni materiali del settore fonderie hanno toccato quota 386 milioni di euro, con una crescita del +26% sull’anno precedente, nonostante il fatturato sia rimasto sostanzialmente stabile.
È la dimostrazione dei punti di forza del settore enunciati in apertura del capitolo sulle performance economiche nel report:
1. INTEGRAZIONE DI FILIERA
2. COMPETITIVITÀ TECNOLOGICA
3. SPECIFICITÀ DIMENSIONALE
4. SOSTENIBILITÀ ECONOMICA
Punti di forza che trovano conferme andando ulteriormente in dettaglio sui dati relativi alle esportazioni: dagli anni immediatamente successivi alla crisi finanziaria del 2008-2009, l’export cresce più in valore che in volume, al contrario di quanto accadeva prima.
Si possono avanzare alcune ipotesi sulla relazione esistente tra la maggiore pressione competitiva e l’incremento del valore medio unitario (VMU) delle esportazioni italiane comuni a diversi settori merceologici. Una prima ipotesi è che le fonderie abbiano operato un upgrading qualitativo in modo da posizionarsi in settori di mercato meno soggetti alla diretta concorrenza dei Paesi emergenti, che negli anni Novanta era data prevalentemente dall’intensa presenza dei prodotti a basso contenuto tecnologico originari dei Paesi dell’Est Europa (all’epoca non ancora integrati nell’Unione Europea), che esercitavano una concorrenza aggressiva grazie allo sfruttamento di vantaggi di costo.
In secondo luogo, è ragionevole pensare che ci sia stato un miglioramento della qualità complessiva delle esportazioni, ma che esso sia da attribuirsi principalmente alla perdita di competitività delle produzioni più standardizzate. In quest’ottica, l’upgrading sarebbe una conseguenza dell’uscita dal mercato delle produzioni qualitativamente meno elevate, che hanno subito maggiormente la concorrenza dei paesi emergenti (“upgrading in- dotto”). Questa lettura è inoltre confermata dall’analisi statistica sul mix dei getti esportati, che rileva una forte ascesa di quelli catalogabili come prodotti tecnologicamente più complessi e a più alto valore aggiunto. Proprio il dato sul valore aggiunto si conferma essere, dal 2008, in miglioramento strutturale: si passa dal 22% dei ricavi del 2008 al 29% del 2019, segno che le fonderie italiane, negli ultimi anni, hanno ideato e sviluppato capacità e soluzioni sempre più in linea con le esigenze dei propri clienti in termini di unicità, utilità e originalità della propria offerta. Un’ulteriore dimostrazione delle capacità delle imprese del settore di distinguersi rispetto ai competitor internazionali in un mercato sempre più complesso e competitivo.
A due anni di distanza dai dati 2019, punto finale di riferimento dell’analisi del report, non si può dire che la situazione internazionale sia migliorata. Pandemia, guerra russo-ucraina, crisi energetica, speculazioni e carenze di materie prime, da ultimo le altissime aspettative dell’Unione Europea in fatto di transizione ecologica. Le fonti di preoccupazione non mancano. Tuttavia, la capacità del settore di evolvere nei cambiamenti e nelle difficoltà che hanno caratterizzato gli ultimi anni induce a essere ottimisti sulla possibilità che la fonderia italiana possa mantenere un ruolo di primo piano nell’ambito della manifattura europea e mondiale.
Fonte: In Fonderia – ll magazine dell’industria fusoria italiana